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Nel 1903 il ventenne Franz Kappus invia a Rainer Maria Rilke (già affermato poeta e scrittore) i suoi primi tentativi di poesia, accompagnati da una lettera in cui chiede all’artista un giudizio critico sui propri versi. Inizia così un breve carteggio durato quattro anni, nel corso dei quali, con stupefacente saggezza e lungimiranza, ma anche con quella sincera umiltà che è il segno distintivo dei grandi artisti e delle grandi anime, Rilke affronta i principali temi della vita: l’arte, l’amore,  Dio, la solitudine e la morte. Pubblicate postume, le sue lettere presto si diffusero in tutti i paesi di lingua tedesca e da allora hanno rappresentato una sorta di “guida spirituale”, non solo per i poeti, ma per tutti coloro che sono in cerca del proprio cammino nella vita, oltre a costituire un successo editoriale mondiale che fino a oggi non ha conosciuto soste.

Lessi per la prima volta Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke durante la stesura del mio romanzo Werdenstein, e precisamente mentre scrivevo i capitoli ambientati nel collegio militare di Bad Löwenfeld (1911). Vi si narrava, tra le altre cose, del giovane Andreas von Kluge, aspirante poeta e sfortunato amante del protagonista adolescente. “Vidi” (mi sia concessa l’espressione di sapore vagamente medianico) il giovane Andreas leggere e amare Rilke nel segreto, e l’impegno ad approfondire a mia volta la conoscenza del grande poeta praghese mi aiutò a penetrare più a fondo nella psicologia del mio personaggio.

Parlando in questi giorni con un mio allievo musicista, il quale desiderava da me un giudizio critico sulla propria opera di compositore e cantante, mi sono tornate in mente proprio quelle Lettere a un giovane poeta che, durante quegli studi, avevano destato il mio ammirato stupore. Sentivo che in esse era contenuta l’unica risposta possibile alla domanda che, più sottile e complessa, vibrava in segreto dietro la richiesta del mio allievo: «Sono davvero un artista io? Ho forse il diritto di dichiararmi tale? Chi può deciderlo?»

Dedico questa prima lettera di Rilke a tutti coloro che si sono posti la medesima domanda… siano essi scrittori, musicisti, pittori, non importa: le lettere di Rilke oltrepassano i confini della poesia, il loro contenuto si rivolge a tutti i percorsi della ricerca artistica, poiché parlano all’anima e al cuore, non solo all’intelletto, e, lontane come sono dallo stereotipo maestro-discepolo, racchiudono un invito a diventare, ognuno di noi, Maestro di se stesso.

Carmen Margherita Di Giglio (18/10/2010 ore 22:29)Brief Rilke 1

“Parigi, 17 febbraio 1903

Egregio signore,

la sua lettera mi è giunta solo alcuni giorni fa. Voglio ringraziarla per la sua grande e cara fiducia. Poco altro posso. Non posso addentrarmi nella natura dei suoi versi, poiché ogni intenzione critica è troppo lontana da me. Nulla può toccare tanto poco un’opera d’arte quanto un giudizio critico: se ne ottengono sempre più o meno felici malintesi. Le cose non si possono tutte afferrare e dire come d’abitudine ci vorrebbero far credere; la maggior parte degli eventi sono indicibili, si compiono in uno spazio inaccessibile alla parola, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte, esistenze piene di mistero la cui vita, accanto nostra che svanisce, perdura. (…)

Lei domanda se i suoi versi siano buoni. Lo domanda a me. Prima lo ha domandato ad altri. Li invia alle riviste. Li confronta con altre poesie, e si allarma se certe redazioni rifiutano le sue prove. Ora, poiché mi ha autorizzato a consigliarla, le chiedo di rinunciare a tutto questo. Lei guarda all’esterno, ed è appunto questo che ora non dovrebbe fare. Nessuno può darle consiglio o aiuto, nessuno. Non v’è che un mezzo. Guardi dentro di sé. Si interroghi sul motivo che le impone di scrivere; verifichi se esso protenda le radici nel punto più profondo del suo cuore; confessi a se stesso: morirebbe, se le fosse negato di scrivere? Questo soprattutto: si domandi, nell’ora più quieta della sua notte: devo scrivere? Frughi dentro di sé alla ricerca di una profonda risposta. E se sarà di assenso, se lei potrà affrontare con un forte e semplice «io devo» questa grave domanda, allora costruisca la sua vita secondo questa necessità. La sua vita, fin dentro la sua ora più indifferente e misera, deve farsi insegna e testimone di questa urgenza. Allora si avvicini alla natura. Allora cerchi, come un primo uomo al mondo, di dire ciò che vede e vive e ama e perde. Non scriva poesie d’amore; eviti dapprima quelle forme che sono troppo correnti e comuni: sono le più difficili, poiché serve una forza grande e già matura per dare un proprio contributo dove sono in abbondanza tradizioni buone e in parte ottime. Perciò rifugga dai motivi più diffusi a favore di quelli che le offre il suo stesso quotidiano; descriva le sue tristezze e aspirazioni, i pensieri effimeri e la fede in una bellezza qualunque; descriva tutto questo con intima, sommessa, umile sincerità, e usi, per esprimersi, le cose che le stanno intorno, le immagini dei suoi sogni e gli oggetti del suo ricordo. Se la sua giornata le sembra povera, non la accusi; accusi se stesso, si dica che non è abbastanza poeta da evocarne le ricchezze; poiché per chi crea non esiste povertà, né vi sono luoghi indifferenti o miseri. E se anche si trovasse in una prigione, le cui pareti non lasciassero trapelare ai suoi sensi i rumori del mondo, non le, rimarrebbe forse la sua infanzia, quella ricchezza squisita, regale, quello scrigno di ricordi? Rivolga lì la sua attenzione. Cerchi di far emergere le sensazioni sommerse di quell’ampio passato; la sua personalità si rinsalderà, la sua solitudine si farà più ampia e diverrà una casa al crepuscolo, chiusa al lontano rumore degli altri. E se da questa introversione, da questo immergersi nel proprio mondo sorgono versi, allora non le verrà in mente di chiedere a qualcuno se siano buoni versi. Né tenterà di interessare le riviste a quei lavori: poiché in essi lei vedrà il suo caro e naturale possesso, una scheggia e un suono della sua vita. Un’opera d’arte è buona se nasce da necessità. È questa natura della sua origine a giudicarla: altro non v’è. E dunque, egregio signore, non avevo da darle altro consiglio che questo: guardi dentro di sé, esplori le profondità da cui scaturisce la sua vita; a quella fonte troverà risposta alla domanda se lei debba creare. La accetti come suona, senza stare a interpretarla. Si vedrà forse che è chiamato a essere artista. Allora prenda su di sé la sorte, e la sopporti, ne porti il peso e la grandezza, senza mai ambire al premio che può venire dall’esterno. Poiché chi crea deve essere un mondo per sé e in sé trovare tutto, e nella natura sua compagna.
Forse, però, anche dopo questa discesa nel suo intimo e nella sua solitudine, dovrà rinunciare a diventare un poeta (basta, come dicevo, sentire che senza scrivere si potrebbe vivere, perché non sia concesso). Ma anche allora, l’introversione che le chiedo non sarà stata vana. La sua vita in ogni caso troverà, da quel momento, proprie vie; e che possano essere buone, ricche e ampie, questo io le auguro più di quanto sappia dire.
Cos’altro dirle? Mi pare tutto equamente rilevato; e poi, in fondo, volevo solo consigliarla di seguire silenzioso e serio il suo sviluppo; non lo può turbare più violentemente che guardando all’esterno, e dall’esterno aspettando risposta a domande cui solo il sentimento suo più intimo, nella sua ora più quieta, può forse rispondere. (…)

Le restituisco inoltre i versi che gentilmente mi ha voluto confidare. E la ringrazio ancora per la grandezza e la cordialità della sua fiducia, di cui con questa risposta sincera, e data in buona fede, ho cercato di rendermi un po’ più degno di quanto io, un estraneo, non sia.

Suo devotissimo
Rainer Maria Rilke”


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